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Il mare ai tempi del riscaldamento globaleIntervista a Ferdinando Boero

I cambiamenti climatici hanno un impatto molto importante sui mari e sugli oceani e sulle attività di chi vive dei loro frutti e lungo le loro coste. Per chi come noi vive dei prodotti di queste distese d’acqua, i mutamenti in atto sono una costante preoccupazione, e non solo per il nostro lavoro. Gli oceani garantiscono, infatti, il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbono il 90% del calore prodotto dai gas serra. 

Per questo abbiamo pensato di raccontarvi quello che sta accadendo e quello che potrà accadere in futuro con l’aiuto di chi da anni dedica la propria vita a studiare questi fenomeni e a offrirci indicazioni su possibili percorsi di resilienza.

Oggi parliamo dei cambiamenti cui stiamo assistendo nel Mediterraneo a causa del global warming e alla comparsa di specie aliene e di molto altro con Ferdinando Boero, docente di zoologia presso l’Università del Salento e uno dei massimi esperti di ecosistemi marini.

Con il global warming anche la temperatura delle acque superficiali si è innalzata e gli ecosistemi tendono ad adattarsi a questo cambiamento. Alcune specie storicamente presenti nel Mediterraneo, stanno lasciando il posto ad altre specie (aliene) provenienti da acque tropicali più calde e che quindi meglio si adattano alle nuove condizioni. La migrazione delle specie tropicali (pesci, alghe, ecc) verso il Mediterraneo è favorita da attività umane come l’acquacoltura, il trasporto involontario tramite le acqua di zavorra delle navi e l’apertura – e i successivi allargamenti – del Canale di Suez che hanno reso sempre più agevole il tragitto per le specie provenienti dal Mar Rosso.

La prima domanda è d’obbligo: le specie aliene sono pericolose?

Queste specie non sono necessariamente nocive perché aliene ma vanno studiate e bisogna capire che impatto hanno sull’habitat in cui migrano. Nel caso in cui mettano a repentaglio la biodiversità del Mediterraneo, bisogna pensare a soluzioni per limitarne lo sviluppo, anche se le eradicazioni raramente hanno successo. La strategia migliore è la prevenzione, agendo sulle vie di arrivo di queste specie.

La salvaguardia della biodiversità è quindi il criterio per valutare i rischi che possono comportare le specie aliene?

Sì, ma conoscere lo stato della biodiversità non è semplice. La UE ha approvato una direttiva marina con undici descrittori di buono stato ambientale marino, il numero uno della lista è la biodiversità. Il problema è che non esistono sensori per misurarla, non ci sono ancora le tecnologie necessarie. È possibile monitorare con grande precisione la fisica o la chimica di un mare, ma capire quante specie ci siano e come stiano è qualcosa per cui non c’è ancora un supporto tecnologico sufficiente e, cosa ancor più grave, le persone in grado di valutare la biodiversità sono sempre di meno. Si spende tantissimo per migliorare la comprensione di cose che si sanno già, per rendere ancora più perfetti gli strumenti per misure che già conosciamo, mentre quasi nulla per quelle per cui non abbiamo gli strumenti di misurazione.

Questi cambiamenti rischiano di impattare ancora di più su specie già provate dalla pesca industriale eccessiva. Cosa dobbiamo aspettarci e come possiamo difendere il patrimonio costituito dalle specie di maggiore interesse commerciale?

L’esperienza nelle Aree Marine Protette mostra che la pesca è al primo posto come causa di diminuzione delle popolazioni di interesse commerciale. Noi stiamo attingendo in modo industriale da popolazioni naturali e i tassi di prelievo devono essere armonizzati con i tassi di rinnovamento delle risorse. Non possiamo prelevare più pesci di quanti ne producano di nuovi le popolazioni sfruttate. I pesci hanno di solito grandi tassi riproduttivi ed esiste un potenziale di sfruttamento che non ha eguali per gli animali terrestri.

Il primo modo per non depauperare le popolazioni di questi pesci è di non prenderli quando non hanno ancora raggiunto le taglie massime. Conviene attendere che i pesci diventino grandi, prima di prenderli. Ma nella pesca vige la tragedia dei beni comuni: i pesci sono di chi li prende, e c’è la corsa a prenderli prima che li prenda qualcun altro. Il che significa che si prendono quando ancora non sono cresciuti completamente. L’uso di attrezzi selettivi è essenziale. Ma deve essere adottato da tutti, altrimenti chi non rispetta le regole si avvantaggia rispetto a chi le rispetta.
La gestione delle specie dipende dalle loro caratteristiche e non esiste una ricetta unica, valida per tutti. La rotazione dello sfruttamento dovrebbe essere effettuata in modo razionale, lasciando alle specie il tempo di riprendersi. Nelle AMP si è visto che, almeno per le specie costiere, un fermo di pesca di cinque anni porta a enormi produzioni. Chiudere vaste aree alla pesca, sfruttandone altre, e ruotando i periodi di sfruttamento, potrebbe essere una soluzione praticabile. Ma tutte le flotte dovrebbero adottarla. Il fermo di pesca al tonno rosso ha dato risultati incoraggianti e pare che le popolazioni si stiano riprendendo rapidamente, dopo un periodo in cui pareva che si potessero estinguere commercialmente.



Intanto gli accordi COP21 hanno messo un primo limite alla componente antropica causa di questi cambiamenti climatici. Una volta fissati i limiti, come si sono comportati i Paesi europei in questi due anni?


In molti Paesi europei le centrali nucleari stanno terminando il proprio ciclo di vita e devono essere dismesse. Non c’è fortunatamente l’idea di rimpiazzarle con altre centrali nucleari, e si sta pensando ad una riconversione più sostenibile della produzione energetica. Nel Mare del Nord si sta lavorando su due fronti: l’eolico e l’energia prodotta dalle maree. Stanno facendo leva sulle loro risorse il vento e le correnti dimostrando che è possibile passare alle energie rinnovabili. Nel sud Europa si dovrebbe sfruttare di più il sole e lavorare sull’eolico off-shore di cui mi sono già occupato nell’ambito del progetto CoCoNet (http://caspur-ciberpublishing.it/index.php/scires-it/article/view/12592/11435).

E in Italia, quali sono state le azioni portate avanti rispetto a COP21?

Io credo che gli accordi al momento siano delle indicazioni di buona volontà che però poi, in Italia, non corrispondono ai fatti. Il nostro governo da allora ha rilasciato concessioni esplorative per cercare idrocarburi in mare nel Golfo di Taranto e nel Mare di Sicilia. Abbiamo firmato un trattato per limitare l’uso di combustibili fossili e poi rilasciamo concessioni per perforare il nostro mare per cercare i combustibili tossici. Il che è completamente illogico.

Che valore hanno, dunque, gli accordi di Parigi?

Io credo che COP21 sia una grande opportunità per cambiare i nostri stili di vita. Possiamo riconvertire la produzione di energia ma anche ridurre la plastica. Vivere senza la plastica è possibile, vivevamo senza plastica. Riconvertire tutta la nostra economia è un business, vuol dire innovazione, nuove tecnologie, investimenti, dobbiamo però avere la volontà di andare in questa direzione. Chi vende petrolio non ha voluto farlo finora. Però ci sono segnali positivi anche loro iniziano a capire che, oltre a un’urgenza per il pianeta, è anche un business e stanno iniziando a investire nelle rinnovabili. Speriamo che sia così. Perché sarebbe un affare per tutti. Anche fare ecologia può essere un affare vantaggioso. D’altronde nessuno di noi propone di tornare nelle caverne, vogliamo solo che la si smetta di distruggere tutto come stiamo facendo adesso.

 

FERDINANDO BOERO
@cowboynando

Professore di Zoologia all’Università del Salento.
Associato all’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Presidente del Consiglio Scientifico della Stazione Zoologica Anton Dohrn, Napoli.
Rappresentante del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare (CoNISMa) nell’European Marine Board
Membro dell’European Academies Scientific Advisory Council per la preparazione dei documenti di indirizzo per i G7 di Berlino e Tokyo.
Grand Medaille Albert 1er for Oceanography dell’Institute Océanographique de Paris (2005)
Medaglia dell’Accademia Nazionale delle Scienze per la Classe di Scienze Fisiche e Naturali (2017)